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da ognuno secondo le sue possibilità, a ognuno secondo i suoi bisogni (Karl Marx)
Spalancò gli occhi.
Si abituò all’oscurità della stanza e guardò fuori attraverso i vetri.
Un pennello intinto nell’inchiostro aveva cancellato tutte le stelle dal cielo; solo il chiarore diffuso del lampione sottraeva spazio alle tenebre che pressavano il mondo da vicino.
L’alba era ancora lontana.
Pensò che quel giorno sarebbe dovuto incominciare in qualche modo speciale, magari con un auspicio del tipo di quelli che facevano la fortuna degli antichi sacerdoti; una cosa sul genere di un volo di corvi, o forse del sorgere di un sole rosso.
Considerò che i corvi sarebbero stati una pretesa eccessiva; mai visti volatili della specie in quel cielo periferico; per il sole rosso, invece, l’inquinamento atmosferico lasciava qualche speranza.
Rifiutò di accettare la propria agitazione, non era la prima volta che gli capitava di svegliarsi prima del tempo.
Ripassò mentalmente la lezione e si tranquillizzò.
Ce l’avrebbe fatta, non poteva fallire.
Respirò profondo un paio di volte, valutò se fosse il caso di andare a pisciare e farsi un caffè, per aspettare con calma l’ora giusta, magari davanti al televisore che trasmetteva notizie fresche.
Ma a letto stava bene.
E, del resto, anche se si era svegliato in anticipo, non gli sembrava serio modificare la sua pianificazione per così poco.
Così poco… ; si fa per dire, ma lui era un duro, e quel giorno che stava per nascere avrebbe visto di che pasta era fatto.
Peccato che nessuno lo dovesse sapere.
Quel giorno così uguale a tutti gli altri sarebbe stato diverso solo per lui e per le sue vittime.
Si acciambellò sotto le coperte e sorrise.
L’idea di diventare finalmente un assassino fu l’ultimo, confortante pensiero che lo accompagnò in un residuo di sonno.
breve storia della mia storia:
Marcello Cattaneo torna a Genova per assumere l'incarico di capo della Squadra Mobile.La mandibola d’acciaio cominciò lentamente a scendere, sferragliando.
Una lama di luce gialla tagliò l’oscurità, riflettendosi sullo specchio sgretolato dell’acqua.
Le eliche turbinarono ancora, facendo compiere al piccolo traghetto l’ultima manovra di accosto alla banchina, mentre una folata di brezza frusciava tra i ventagli delle palme alternate ai lampioni, ai bordi del lungomare, e scompigliava i capelli stopposi dell’uomo che aveva in mano il cavo d’ormeggio a dritta.
Il silenzio era ormai spezzato dai rumori amplificati nel quieto nitore precedente l’alba, provenienti da quella bocca che si andava spalancando, fino ad appoggiare il suo labbro ferroso sulla pietra, con il consueto frastuono che scandiva l’inizio del giorno.
Furono girate chiavi e premuti bottoni, e i motori accesi misero in fuga, sotto un cielo ancora stellato, gli ultimi residui di magia.
Per poco, il contributo umano al fascino del quadro restò affidato al baluginare della nave e delle sue fauci, scomposto nelle liquide scaglie del porticciolo, poi, via via che i veicoli scendevano con brevi rimbombi di lamiera, essi assunsero contorni definiti nell’inesorabile chiarore dell’aurora, e la loro invadenza impoverì la scena.
Le increspature svanirono e il lento trionfo del mattino sconfisse l’impudenza luminosa della goffa imbarcazione adagiata sul mare, adesso così liscio da sembrare lui un solido e lei sua prigioniera.
Sono.
Qui.
In questa galleria buia e stretta, pronto.
Pronto a fuggire, scagliarmi verso l’uscita, verso quel circolo di luce che da qui colgo come realtà parziale.
Rumori metallici: un presagio della mia corsa, e movimenti e altri rumori diversi, fuori.
Io sto.
Acquattato nel buio.
Qualcosa si tende, a un tratto, il moto, il tempo si fermano, non i rumori fuori.
Sono rumori d’uomini e natura, voci e frusciare inconsapevoli.
Potrei figurarmeli: i giovani dalla barba accennata e i loro passi senza pudore, temerari nella campagna e orgogliosi come la sfida al mondo della loro età.
I giovani e il loro carico immortale di vigore sciocco e meraviglioso e sparso senza ritegno, con l’anima tra i denti e la vita tenuta per i capelli. Sono loro quelli per cui un ricordo non ha mai tempo di sopravvivere, scacciato dal bacio successivo o dalla prossima lacrima, loro per cui le notti non sono mai abbastanza e i giorni hanno un sapore distratto, loro che non si voltano mai indietro e si credono sempre lontani dall’altra riva finché non l’attraversano quasi per sbaglio, per poi crescere finalmente, nella vaga nostalgia di se stessi al di là
Non litighiamo mai.
Lei pensa che non mi farebbe bene ed è abilissima a schivare, si comporta come la guida di un cieco che, per non ferire il suo protetto, preferisce rimuovere ogni ostacolo piuttosto che spingerlo a cambiare strada.
E’ una donna meravigliosa.
Il dottore la pensa così anche lui; lei mi regala la serenità della vita che scorre sui binari di una felicità tranquilla, la sicurezza dei sentimenti, la costruzione di una routine; sono il rifugio solido e ideale per guarire, il medicamento giusto per le mie ferite.
Sarei curioso di sapere se giudicherebbe così anche il nostro sesso idraulico del sabato notte, meccanico e sicuro.
Potrei indovinare ormai il numero e la frequenza dei suoi sospiri prima che si abbandoni all’orgasmo, o alla sua simulazione.
Perfetta, naturalmente.
Io godo comunque, non lo nego, lei è bella e brava. Godo senza erotismo o sovversione, per sfregamento della parte.
Non c’è niente di luminoso, di vivo, o, almeno, di disperato, nei suoi occhi, durante l’atto; niente di caldo nel suo consueto sorriso, quando smonto e mi sdraio di fianco a lei.
E la sua carezza sul mio viso… dio sempre quella! Mi dà una tristezza infinita.
Avevamo un cane. Anzi, la mia famiglia lo aveva. Anzi, non è che lo avesse proprio, Nick era un grosso randagio bastardo, fetente e spelacchiato, che faceva da spazzino agli scarsi resti dei pasti dei miei cari e di altri sventurati, abitanti quella specie di favela, e perciò la sua fame non si saziava mai.
Era, lo seppi dopo, un bestione indistruttibile, prodigioso incassatore di calci e bastonate, con una dentatura capace di sgretolare ossa di bue, legno, plastica, qualunque cosa il suo stomaco formidabile fosse in grado di digerire.
E il suo stomaco mirabolante forse non si tirava indietro nemmeno di fronte al metallo.
Questo fenomeno della razza canina era capace di entrare in ogni recesso, di superare qualsiasi barriera e aveva un fiuto allenato a percepire ogni più piccola particella odorosa di plausibile cibo.
Inevitabile che l’attirasse l’odore del sangue, e che mi scoprisse, povera bestia, come un succulento boccone di tenera carne fresca, confezionato apposta per lui.
Se quello sciagurato quadrupede avesse potuto piangere di commozione, sono certo che l’avrebbe fatto.
Mai, in tutta la sua vita, gli era stato offerto un pasto tanto sontuoso.
Mi si avvicinò con una sorta di rispettosa eleganza, come se fosse conscio dell’importanza del momento.
Io ero così piccolo ed ingenuo, allora; ricordo che non ne ebbi paura, anzi, quando snudò le zanne mi parve quasi che sorridesse e ricordo che pensai: “Che bel cagnone! Voglio tenerti con me per sempre.”
Gli occhi concupiscenti gli si fecero d’un tratto opachi, e le labbra ricaddero sui denti come se fossero state appese a un filo tagliato di colpo.
Mi parve che il suo ultimo sguardo fosse stupito, o forse deluso dalla crudele inopportunità dell’accadimento.
Uggiolò. Sparò una lunga, tonitruante scoreggia, e si afflosciò a terra come un palloncino sgonfiato.
Morto stecchito.
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